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Home » Attualità » La polizia iraniana riprende a controllare l’uso del velo in auto. Diciottenne condannato a morte

La polizia iraniana riprende a controllare l’uso del velo in auto. Diciottenne condannato a morte

Il programma Nazer-1 entra in una nuova fase: le donne che vengono scoperte senza il velo ricevono un sms che le richiama all'ordine, ricordando loro l'obbligo imposto nel Paese

Marianna Grazi
2 Gennaio 2023
La polizia iraniana controlla i documenti di una donna ad un posto di blocco

La polizia iraniana controlla i documenti di una donna ad un posto di blocco

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Non solo in strada, nei luoghi pubblici e in qualsiasi ufficio, ma anche in auto: le cittadine iraniane devono indossare il velo islamico anche alla guida, per non rischiare di venire ammonite – o peggio – dalla polizia. Che ha ripreso infatti a monitorare l’uso dell’hijab da parte delle donne anche nelle loro vetture. A riferirlo sono i media locali, secondo i quali “è iniziata la nuova fase del programma Nazer-1 (sorveglianza, in lingua farsi) in tutto il Paese”, come ha dichiarato un “alto funzionario di polizia” all’agenzia di stampa Fars. “Il Nazer-1 riguarda l’assenza di hijab nelle auto, con la polizia che invia un Sms a chi trasgredisce”, ha spiegato ai giornalisti. Stando a Fars nel messaggio si legge: “L’assenza del velo è stata osservata nella vostra auto. È necessario rispettare le norme della società e non ripetere questo atto”. Attenuata quindi la minaccia che era contenuta in una versione precedente del testo, secondo cui “se questa azione si ripete, vi saranno applicate conseguenze legali e giudiziarie”: quest’ultima puntualizzazione è stata infatti rimossa.

Una giovane iraniana durante le proteste

Il programma Nazer della polizia iraniana

Il programma Nazer è stato lanciato dalla polizia nel 2020. Dopo la morte di Mahsa Amini, nel corso delle proteste che si sono scatenate, le donne hanno iniziato fin da subito a manifestare il proprio dissenso nei confronti del regime togliendosi pubblicamente il velo, tagliandosi ciocche di quei capelli che le autorità della Repubblica Islamica vorrebbero ben coperti, e sfidando le istituzioni per una maggior considerazione e tutela dei loro diritti. La famigerata polizia morale, la stessa che ha arrestato e picchiato a morte la 22enne di origine curda a metà settembre, ha smesso di arrestare le donne che camminavano a capo scoperto per strada e di portarle alla stazione di polizia. All’inizio del mese scorso il procuratore generale iraniano Mohammad Jafar Montazeri aveva dichiarato che le unità di polizia della buoncostume, note come Gasht-e Ershad (“pattuglia di guida”) erano state sospese. Ma gli attivisti erano rimasti scettici sulla reale abolizione o cancellazione della polizia morale, perché le sue parole sembravano essere più una risposta estemporanea a una domanda durante una conferenza piuttosto che un chiaro annuncio del Ministero degli Interni. Ed effettivamente sembra che la ripresa dei controlli in auto sia il preavviso per un’effettiva ripartenza dei controlli – con conseguenti misure di punizione – da parte di questi agenti anche a livello più generale.

Il video ricordo per Mehdi

“Baradaram”, “fratello mio”, con accanto una rosa appassita. Due parole in italiano, una sola in persiano, sono quelle scelte dal fratello del 33enne Mehdi Zare Ashkzari, per ricordare con un video il giovane iraniano morto dopo venti giorni di coma a causa delle torture subite nel carcere in cui era stato arrestato per aver preso parte alle manifestazioni. Nel montato si susseguono immagini che ritraggono Mehdi in momenti di vita quotidiana: occhiali da sole, felpa e cappellino in testa, la gioventù e la voglia di vivere negli occhi. In un breve passaggio che sembra provenire dai social si vede Ashkzari cantare in macchina, sorridente, insieme a un altro giovane, presumibilmente lo stesso fratello. Ci sono poi fotografie del ragazzo in sella ad un cavallo, al McDonald’s e infine insieme ad una signora che probabilmente è sua madre. Quella mamma cui Mehdi era profondamente legato e che, appena saputo che si era ammalata, nel 2021, aveva raggiunto tornando in Iran da Bologna. Nel capoluogo emiliano, che oggi lo piange, Mehdi aveva studiato Farmacia e lavorato in una pizzeria della zona universitaria. In sottofondo al filmato del fratello, una canzone persiana dalle note malinconiche.

Mehdi Zare Ashkzari, 33 anni, morto in Iran dopo venti giorni di coma a seguito di torture

Nuova condanna a morte

Intanto arriva l’ennesima – condanna a morte. Questa volta riguarda un giovane di appena 18 anni, Mahdi MohammadIFard, arrestato a Nowshahr durante le proteste per la Mahsa Amini, che ha ricevuto per due volte la sentenza capitale da un tribunale di Sari, nella regione di Mazandaran. L’accusa è la stessa di quella dei suoi predecessori: “corruzione sulla terra” e “moharebeh“, guerra contro Dio, il reato per il quale vengono di solito condannati i manifestanti iraniani. Lo riferiscono fonti della dissidenza locale. Secondo i compagni in esilio, invece, il 2023 sarà l’anno della “vittoria” dei manifestanti contro il regime. Gli oppositori iraniani che si trovano all’estero per sfuggire la repressione delle autorità invocano la caduta del regime di Teheran, indebolito dall’ondata di proteste in atto nel Paese dallo scorso settembre. “Organizzandoci, restando solidali, il 2023 sarà l’anno della vittoria per la nazione iraniana. L’anno della libertà e della giustizia in Iran“, affermano i ribelli, tra cui ci sono anche personalità di primo piano nei settori della cultura, dei diritti umani o del mondo sportivo. Pubblicato simultaneamente sui profili social di ognuno di essi, il messaggio punta a mostrare l’unità della diaspora, divisa in diverse fazioni politiche dalla caduta dello Scià, nel 1979. Il testo è stato sottoscritto da attrici come Zar Amir Ebrahimi, il figlio dello Scià decaduto Reza Pahlavi, o il dissidente rifugiatosi negli Usa Masih Alinejad. Ma anche il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi o l’ex calciatore Hamed Ali Karimi.

La grazia a 3mila detenuti e il giornalista in carcere

Keyvan Samimi è un giornalista e dissidente 73enne iraniano in carcere dal dicembre 2020

Mentre le proteste proseguono in tutte le principali città iraniana e la repressione si inasprisce, come dimostra la ripresa dei controlli in auto per le donne obbligate a indossare l’hijab, si apprende che il capo della magistratura iraniana, Gholam-Hossein Mohseni-Eje’i, ha approvato la grazia a 3.000 detenuti e la riduzione della pena a 16 persone condannate a morte, in occasione del terzo anniversario della morte del generale Qassem Soleimani. Lo annuncia l’agenzia di stampa Irna, precisando che ne è stato reso noto in occasione di una commemorazione di Soleimani nella sua città natale, Kerman, nel sud-est del Paese. Mohseni-Eje’i ha precisato che il rilascio dei prigionieri avverrà nei prossimi giorni, in concomitanza con le cerimonie che si terranno in tutto lo Stato per il generale, ucciso in un attacco Usa in Iraq il 3 gennaio 2020. Smentita invece dalla famiglia del detenuto la notizia della scarcerazione del giornalista e dissidente politico iraniano Keyvan Samimi, 73 anni, in cella dal dicembre 2020. Domenica 1° gennaio lo aveva scritto il giornale riformatore, Shargh. Samimi è stato condannato a tre anni di prigione per “complotto alla sicurezza nazionale“. Secondo i familiari non è stato affatto liberato e si trova ancora dietro le sbarre nella prigione di Senman, a più di 200km da Teheran. Il reporter era stato autorizzato a tornare a casa nel febbraio 2022 a causa di problemi di salute, ma a maggio era stato nuovamente rinchiuso con l’accusa di attività illegali, per aver partecipato a una manifestazione dinanzi al Parlamento.

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  • Nicoletta Sipos, giornalista e scrittrice, ha vissuto in Ungheria, in Germania e negli Stati Uniti, prima di raggiungere Milano e lì restare. Il suo romanzo “La guerra di H”, un romanzo fortemente ispirato a fatti realmente accaduti.

L’autrice indaga in maniera del tutto nuova e appassionante un momento drammatico, decisivo della storia del nostro continente: la Seconda guerra mondiale. A raccontare l’ascesa e la disfatta del Nazismo è stavolta la voce di un bambino tedesco, che riporta con semplicità e veracità le molte sofferenze patite dal suo popolo durante il conflitto scatenato da Hitler, focalizzando l’attenzione del lettore sul drammatico paradigma che accomuna chiunque si trovi a vivere sulla propria pelle una guerra: la sofferenza. Pagine toccanti, le sue, tanto più intense perché impregnate di fatti reali, emozioni provate e sentite dai protagonisti e condivise da quanti, tuttora, si trovano coinvolti in un conflitto armato. La memoria collettiva è uno strumento potente per non commettere gli stessi errori. 

"Imparai poco alla volta – scrive il piccolo Heinrich Stein, protagonista del romanzo – che nel nostro strano Paese la verità aveva più volti con infinite sfumature”.

👉Perché una storia così e perché ora?
“Ho incontrato il protagonista di questa mia storia molto tempo fa, addirittura negli anni ’50, ossia in un’epoca che portava ancora gli strascichi della guerra. Diventammo amici, parlammo di Hitler e della miseria della Germania. Poco per volta, via via che ci incontravamo, lui aggiungeva ricordi, dettagli, confessioni. Per anni ho portato dentro di me la testimonianza di questa storia che si arricchiva sempre più di dettagli. Molte volte avrei voluto scriverla, magari a quattro mani con il mio amico, ma lui non se la sentiva. Io stessa esitavo ad affrontare questa storia che racconta una famiglia tedesca in forte sofferenza in una Germania ferita e umiliata. La gente ha etichettato tutto il popolo tedesco durante il nazismo come crudele per antonomasia. Non si pensa mai a quanto la gente comune abbia sofferto, alla fame e al freddo che anche il popolo tedesco ha patito”.

✍ Caterina Ceccuti

#lucenews #giornodellamemoria #27gennaio
  • È dalla sua camera con vista affacciata sull’Arno che Ornella Vanoni accetta di raccontare un po’ di sé ai lettori di Luce!, in attesa di esibirsi, sabato 28 gennaio sul palco della Tuscany Hall di Firenze, dov’è in programma una nuova tappa della nuova tournée Le Donne e la Musica. Un ritorno atteso per Ornella Vanoni, che in questo tour è accompagnata da un quintetto di sole donne.

Innanzitutto come sta, signora Vanoni?
“Stanca, sono partita due mesi dopo l’intervento al femore che mi sono rotto cadendo per una buca proprio davanti a casa mia. Ma l’incidente non mi ha impedito di intraprendere un progetto inaspettato che, sin da subito, mi è stato molto a cuore. Non ho perso la volontà di andare avanti. Anche se il tempo per prepararlo e provare è stato pochissimo. E poi sono molto dispiaciuta“.

Per cosa?
“La morte dell’orso Juan Carrito, travolto e ucciso da un’auto cercava bacche e miele: la mia carissima amica Dacia (Maraini, ndr) l’altro giorno ha scritto una cosa molto bella dedicata a lui. Dovrò scrollarmi di dosso la malinconia e ricaricarmi in vista del concerto“.

Con lei sul palco ci sarà una jazz band al femminile con Sade Mangiaracina al pianoforte, Eleonora Strino alla chitarra, Federica Michisanti al contrabbasso, Laura Klain alla batteria e Leila Shirvani. Perché questa scelta?
“Perché sono tutte bravissime, professioniste davvero eccezionali. Non è una decisione presa sulla spinta di tematiche legate al genere o alle quote rosa, ma nata grazie a Paolo Fresu, amico e trombettista fantastico del quale sono innamorata da sempre. Tempo fa, durante una chiacchierata, Paolo mi raccontò che al festival jazz di Berchidda erano andate in scena tante musiciste bravissime. E allora ho pensato: ’Se sono così brave perché non fare un gruppo di donne? Certo, non l’ha fatto mai nessuno. Bene, ora lo faccio io“.

Il fatto che siano tutte donne è un valore aggiunto?
“In realtà per me conta il talento, ma sono felice della scelta: è bellissimo sentire suonare queste artiste, vederle sul palco intorno a me mi emoziona“.

L
  • Devanshi Sanghvi è una bambina di otto anni che sarebbe potuta crescere e studiare per gestire l’attività di diamanti multimilionaria appartenente alla sua facoltosissima famiglia, con un patrimonio stimato di 60 milioni di dollari.

Ma la piccola ha scelto di farsi suora, vivendo così una vita spartana, vestita con sari bianchi, a piedi nudi e andando di porta in porta a chiedere l’elemosina. Si è unita ai “diksha” alla presenza di anziani monaci giainisti. La bimba è arrivata alla cerimonia ingioiellata e vestita di sete pregiate. Sulla sua testa poggiava una corona tempestata di diamanti. Dopo la cerimonia, a cui hanno partecipato migliaia di persone, è rimasta in piedi con altre suore, vestita con un sari bianco che le copriva anche la testa rasata. Nelle fotografie, la si vede con in mano una scopa che ora dovrà usare per spazzare via gli insetti dal suo cammino per evitare di calpestarli accidentalmente.

Di Barbara Berti ✍

#lucenews #lucelanazione #india #DevanshiSanghvi
  • Settanta giorni trascorsi in un mondo completamente bianco, la capitana dell’esercito britannico Harpreet Chandi, che già lo scorso anno si era distinta per un’impresa tra i ghiacci, è una fisioterapista che lavora in un’unità di riabilitazione regionale nel Buckinghamshire, fornendo supporto a soldati e ufficiali feriti. 

Ha dimostrato che i record sono fatti per essere battuti e, soprattutto, i limiti personali superabili grazie alla forza di volontà e alla preparazione. E ora è diventata una vera leggenda vivente, battendo il record del mondo femminile per la più lunga spedizione polare – sola e senza assistenza – della storia.

Il 9 gennaio scorso, 57esimo giorno del viaggio che era cominciato lo scorso 14 novembre, la 34enne inglese ha raggiunto il centro del Polo Sud dopo aver percorso circa 1100 chilometri. Quando è arrivata a destinazione nel bel mezzo della calotta polare era felice, pura e semplice gioia di aver raggiunto l’agognato traguardo: “Il Polo Sud è davvero un posto incredibile dove stare. Non mi sono fermata molto a lungo perché ho ancora un lungo viaggio da fare. È stato davvero difficile arrivare qui, sciando tra le 13 e le 15 ore al giorno con una media di 5 ore di sonno”.

Di Irene Carlotta Cicora ✍

#lucenews #lucelanazione #polosud #HarpreetChandi #polarpreet
Non solo in strada, nei luoghi pubblici e in qualsiasi ufficio, ma anche in auto: le cittadine iraniane devono indossare il velo islamico anche alla guida, per non rischiare di venire ammonite - o peggio - dalla polizia. Che ha ripreso infatti a monitorare l'uso dell'hijab da parte delle donne anche nelle loro vetture. A riferirlo sono i media locali, secondo i quali "è iniziata la nuova fase del programma Nazer-1 (sorveglianza, in lingua farsi) in tutto il Paese", come ha dichiarato un "alto funzionario di polizia" all'agenzia di stampa Fars. "Il Nazer-1 riguarda l'assenza di hijab nelle auto, con la polizia che invia un Sms a chi trasgredisce", ha spiegato ai giornalisti. Stando a Fars nel messaggio si legge: "L'assenza del velo è stata osservata nella vostra auto. È necessario rispettare le norme della società e non ripetere questo atto". Attenuata quindi la minaccia che era contenuta in una versione precedente del testo, secondo cui "se questa azione si ripete, vi saranno applicate conseguenze legali e giudiziarie": quest'ultima puntualizzazione è stata infatti rimossa.
Una giovane iraniana durante le proteste

Il programma Nazer della polizia iraniana

Il programma Nazer è stato lanciato dalla polizia nel 2020. Dopo la morte di Mahsa Amini, nel corso delle proteste che si sono scatenate, le donne hanno iniziato fin da subito a manifestare il proprio dissenso nei confronti del regime togliendosi pubblicamente il velo, tagliandosi ciocche di quei capelli che le autorità della Repubblica Islamica vorrebbero ben coperti, e sfidando le istituzioni per una maggior considerazione e tutela dei loro diritti. La famigerata polizia morale, la stessa che ha arrestato e picchiato a morte la 22enne di origine curda a metà settembre, ha smesso di arrestare le donne che camminavano a capo scoperto per strada e di portarle alla stazione di polizia. All'inizio del mese scorso il procuratore generale iraniano Mohammad Jafar Montazeri aveva dichiarato che le unità di polizia della buoncostume, note come Gasht-e Ershad ("pattuglia di guida") erano state sospese. Ma gli attivisti erano rimasti scettici sulla reale abolizione o cancellazione della polizia morale, perché le sue parole sembravano essere più una risposta estemporanea a una domanda durante una conferenza piuttosto che un chiaro annuncio del Ministero degli Interni. Ed effettivamente sembra che la ripresa dei controlli in auto sia il preavviso per un'effettiva ripartenza dei controlli - con conseguenti misure di punizione - da parte di questi agenti anche a livello più generale.

Il video ricordo per Mehdi

"Baradaram", "fratello mio", con accanto una rosa appassita. Due parole in italiano, una sola in persiano, sono quelle scelte dal fratello del 33enne Mehdi Zare Ashkzari, per ricordare con un video il giovane iraniano morto dopo venti giorni di coma a causa delle torture subite nel carcere in cui era stato arrestato per aver preso parte alle manifestazioni. Nel montato si susseguono immagini che ritraggono Mehdi in momenti di vita quotidiana: occhiali da sole, felpa e cappellino in testa, la gioventù e la voglia di vivere negli occhi. In un breve passaggio che sembra provenire dai social si vede Ashkzari cantare in macchina, sorridente, insieme a un altro giovane, presumibilmente lo stesso fratello. Ci sono poi fotografie del ragazzo in sella ad un cavallo, al McDonald's e infine insieme ad una signora che probabilmente è sua madre. Quella mamma cui Mehdi era profondamente legato e che, appena saputo che si era ammalata, nel 2021, aveva raggiunto tornando in Iran da Bologna. Nel capoluogo emiliano, che oggi lo piange, Mehdi aveva studiato Farmacia e lavorato in una pizzeria della zona universitaria. In sottofondo al filmato del fratello, una canzone persiana dalle note malinconiche.
Mehdi Zare Ashkzari, 33 anni, morto in Iran dopo venti giorni di coma a seguito di torture

Nuova condanna a morte

Intanto arriva l'ennesima - condanna a morte. Questa volta riguarda un giovane di appena 18 anni, Mahdi MohammadIFard, arrestato a Nowshahr durante le proteste per la Mahsa Amini, che ha ricevuto per due volte la sentenza capitale da un tribunale di Sari, nella regione di Mazandaran. L'accusa è la stessa di quella dei suoi predecessori: "corruzione sulla terra" e "moharebeh", guerra contro Dio, il reato per il quale vengono di solito condannati i manifestanti iraniani. Lo riferiscono fonti della dissidenza locale. Secondo i compagni in esilio, invece, il 2023 sarà l'anno della "vittoria" dei manifestanti contro il regime. Gli oppositori iraniani che si trovano all'estero per sfuggire la repressione delle autorità invocano la caduta del regime di Teheran, indebolito dall'ondata di proteste in atto nel Paese dallo scorso settembre. "Organizzandoci, restando solidali, il 2023 sarà l'anno della vittoria per la nazione iraniana. L'anno della libertà e della giustizia in Iran", affermano i ribelli, tra cui ci sono anche personalità di primo piano nei settori della cultura, dei diritti umani o del mondo sportivo. Pubblicato simultaneamente sui profili social di ognuno di essi, il messaggio punta a mostrare l'unità della diaspora, divisa in diverse fazioni politiche dalla caduta dello Scià, nel 1979. Il testo è stato sottoscritto da attrici come Zar Amir Ebrahimi, il figlio dello Scià decaduto Reza Pahlavi, o il dissidente rifugiatosi negli Usa Masih Alinejad. Ma anche il Premio Nobel per la Pace Shirin Ebadi o l'ex calciatore Hamed Ali Karimi.

La grazia a 3mila detenuti e il giornalista in carcere

Keyvan Samimi è un giornalista e dissidente 73enne iraniano in carcere dal dicembre 2020
Mentre le proteste proseguono in tutte le principali città iraniana e la repressione si inasprisce, come dimostra la ripresa dei controlli in auto per le donne obbligate a indossare l'hijab, si apprende che il capo della magistratura iraniana, Gholam-Hossein Mohseni-Eje'i, ha approvato la grazia a 3.000 detenuti e la riduzione della pena a 16 persone condannate a morte, in occasione del terzo anniversario della morte del generale Qassem Soleimani. Lo annuncia l'agenzia di stampa Irna, precisando che ne è stato reso noto in occasione di una commemorazione di Soleimani nella sua città natale, Kerman, nel sud-est del Paese. Mohseni-Eje'i ha precisato che il rilascio dei prigionieri avverrà nei prossimi giorni, in concomitanza con le cerimonie che si terranno in tutto lo Stato per il generale, ucciso in un attacco Usa in Iraq il 3 gennaio 2020. Smentita invece dalla famiglia del detenuto la notizia della scarcerazione del giornalista e dissidente politico iraniano Keyvan Samimi, 73 anni, in cella dal dicembre 2020. Domenica 1° gennaio lo aveva scritto il giornale riformatore, Shargh. Samimi è stato condannato a tre anni di prigione per "complotto alla sicurezza nazionale". Secondo i familiari non è stato affatto liberato e si trova ancora dietro le sbarre nella prigione di Senman, a più di 200km da Teheran. Il reporter era stato autorizzato a tornare a casa nel febbraio 2022 a causa di problemi di salute, ma a maggio era stato nuovamente rinchiuso con l'accusa di attività illegali, per aver partecipato a una manifestazione dinanzi al Parlamento.
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