Un corridoio d’ospedale è percorso da un infermiere che trasporta un carrello con un piatto di gamberetti come fosse una medicina. Quel piatto finisce davanti una ragazza ridotta pelle e ossa dall’anoressia. Una immagine forte che rende bene l’idea e fa male al contempo. E’ una scena di Hangry Butterflies, la rinascita delle farfalle (il termine Hangry è una crasi linguistica tra hungry e angry). Documentario capolavoro di Maruska Albertazzi, autrice, sceneggiatrice e giornalista che anche grazie alla sua storia personale è diventata una importante attivista nella lotta contro i disturbi del comportamento alimentare.
Perché solo chi ha vissuto il problema e in più ha l’abilità di saper narrare, poteva raccontare così bene un fenomeno tanto delicato e complesso. Le farfalle sono ragazze che soffrono di anoressia e bulimia, che si incontrano nel mare magnum del web, si riconoscono, formano una community e si sostengono in questo cammino verso la rinascita. Un abbraccio virtuale che poi diventerà reale. E la prima a mettersi a nudo è proprio lei: Maruska Albertazzi. Maruska come le è venuta l’idea di questo documentario? “Mi ha sempre interessato il mondo degli adolescenti. Cercavo un tema da esplorare e mi sono imbattuta in questi profili recovery su Instagram. Li ho trovati fantastici, un modo per usare i social in maniera costruttiva, utile. Una storia da raccontare”.
Cosa sono i profili recovery? “I profili recovery sono profili instagram in cui si racconta la propria storia di guarigione – attenzione, non di malattia, di guarigione – dai disturbi del comportamento alimentare. Sono profili motivazionali, in cui ci si racconta per aiutare se stesse ma anche le altre che fanno parte della community. Si parla delle sfide affrontate, di quello che hanno generato, sia in positivo che in negativo ma avendo sempre in mente il benessere del gruppo. Direi che sono profili responsabili”. Come nasce il nome Hangry Butterflies … “Se ci pensa, quando abbiamo molta fame, non riusciamo a pensare a niente altro e la fame estrema porta con sé un grande carico di rabbia. E’ una reazione fisiologica: siamo programmati per diventare aggressivi quando non riusciamo a procurarci il cibo. Chi soffre di anoressia nervosa ha fame e rabbia. Mi sembrava il titolo perfetto”.
Anche lei ha avuto problemi di anoressia. Che ricordi ha di quel periodo? “Avevo solo 13 anni, ero poco più che una bambina quando mi sono ammalata. Ricordo ancora bene l’euforia che mi dava il controllo sul corpo, l’esaltazione di quel numero che calava. Ricordo i chilometri a piedi senza potermi mai fermare, nemmeno se ero stanca, se mi facevano male le gambe, se avevo la febbre. Ricordo quel periodo come una specie di parentesi dalla realtà, un metaverso in cui ero immersa in una bolla trasparente che mi permetteva di vedere gli altri ma non me stessa. Una bolla che teneva lontano il dolore, la paura, la rabbia ma anche l’amore, il piacere, la vita. Anoressia fa rima con anestesia”. Lei ha fatto anche la modella oltre che l’attrice, quanto ha influito il prototipo di donna che richiede il mondo della moda? “Quando mi sono ammalata avevo da poco iniziato a fare qualche foto di moda. Roba semplice, per un catalogo di biancheria per ragazze. Sicuramente il fatto di essere stata una ragazzina degli anni ’90, quando il look predominante era quello alla Kate Moss, ha avuto un peso non indifferente. Ma la verità è che i disturbi alimentari hanno un’eziologia complessa, non arrivano mai solo per un motivo. Io non mi piacevo, non riuscivo a vedermi, trovavo il mio corpo deforme, sproporzionato, strano. Un grande ruolo lo ha sicuramente avuto anche il mio essere una bambina Asperger non diagnosticata. Oggi so che la mia dispercezione corporea arriva dalla neurodiversità, allora mi vedevo brutta e basta”.
E secondo lei qualcosa sta cambiando? “Mah, forse sì ma è ancora un cambiamento di superficie. Una moda, non un vero processo di consapevolezza e revisione dei valori. Mettono una modella curvy in sfilata a fronte di decine di modelle francamente sottopeso. Anche i siti che vendono abbigliamento sopra la 46 scelgono per lo più modelle con fianchi, cosce e seno abbondanti ma pance ultra piatte e vitini da vespa ottenuti chirurgicamente. Forse si sta facendo strada un modello di bellezza meno efebico ma sempre di un modello artificiale e irraggiungibile si tratta. L’altro giorno ho visto una ragazzina giovanissima sull’autobus con uno di quei cosi per ingrandire il sedere: l’ho capito perché una delle due protesi le era scesa a metà coscia e lei non se ne era resa conto. Non mi pare un grande passo in avanti”. Sul suo sito c’è scritto "ho il cervello difettoso ma ci faccio meraviglie"… a cosa si riferisce? “Quando scrivo di salute mentale, lo faccio sempre dalla prospettiva dell’utente esperta. Non amo molto la narrativa del “siamo tutti diversi, nessuno è malato”. E’ giusto non stigmatizzare l’utenza psichiatrica ma la linea che separa l’inclusione dalla banalizzazione spesso è sottile. Io ho il cervello difettoso, nel senso che è il mio organo bersaglio. Qualcuno ha il fegato o lo stomaco o l’intestino. Sono Asperger, ho sofferto di disturbo post traumatico da stress, anoressia nervosa, due depressioni post partum, crisi dissociative. So bene di essere più a rischio di altre persone quando si tratta di salute mentale. Però grazie alle giuste cure, al mio percorso di consapevolezza oggi vivo bene. Ci tengo a sottolineare che sono una privilegiata: purtroppo per molte persone guarire da una patologia mentale non è una questione di volontà ma di accesso alle cure. Le liste d’attesa sono interminabili ovunque e la salute mentale è sempre considerata di serie B rispetto a quella “fisica”. Un errore madornale, soprattutto se pensiamo alle nuove generazioni e all’aumento esponenziale di patologie come disturbi alimentari, disturbi di personalità e autolesionismo”. Tra le altre cose ha raccontato anche di una violenza sessuale subita a 15 anni… perché c’è ancora necessità di esporsi? “Come spesso accade per i miei post, la spinta arriva da una delle mie ragazza, quelle che mi seguono e mi scrivono sui social. In quei giorni, mi stavo scrivendo con una ragazza di 16 anni che era in attesa del verdetto riguardo violenze sessuali ripetute che aveva subito dall’età di 8 anni. Ricordo che mi disse che la prima cosa che le avevano chiesto durante l’udienza era se ricordasse cosa indossava quando accadde per la prima volta il fatto. Aveva questa disperazione nella voce, questa vergogna che ricordava tanto la mia. Le dissi che non si doveva vergognare, che non era lei la colpevole ma mentre lo dicevo mi sentivo un’ipocrita: io la violenza che avevo subito non l’avevo mai denunciata. Per paura di non essere creduta, per vergogna ma anche per quieto vivere. Lei era stata così coraggiosa ed io? E’ facile parlare, dare consigli, rassicurazioni ma l’unica cosa che conta veramente è l’esempio. Ho preso coraggio e ho raccontato la mia storia. Quel post, a suo modo, ha generato una piccola rivoluzione tra chi mi seguiva. Ho ricevuto decine e decine di messaggi con storie simili alla mia. Persone che mi ringraziavano perché grazie a me avevano finalmente avuto il coraggio di parlarne”.
Come mai ha deciso di diventare addirittura un’attivista? “Cinque anni fa ho cominciato a lavorare al mio documentario Hangry Butterflies e, grazie a Chiara, una delle protagoniste, ho conosciuto Stefano Tavilla, che allora era il presidente dell’associazione Mi Nutro di Vita. Stefano ha perso sua figlia Giulia di soli 17 anni a causa di un arresto cardiaco avvenuto qualche giorno prima del suo ingresso in una struttura per la cura dei disturbi alimentari. Ascoltando la sua storia e quelle delle ragazze che nel frattempo avevo imparato a conoscere, ho capito che c’era tanto da fare per garantire la giusta cura a chi soffre di queste patologie. Vede, io sono convinta che l’unico modo per trasformare il dolore sia facendo qualcosa per gli altri. Io ho sofferto molto a causa della mia salute mentale ma oggi sto bene, sono guarita e sento il bisogno di restituire il dono che mi è stato fatto. E’ stato un lungo percorso di consapevolezza che mi ha portata dove sono ora e sono convinta che faccia bene tanto a me quanto a loro”. Cosa ha in cantiere da un punto di vista lavorativo? “Dopo tanti anni di scrittura per altri, sto finalmente lavorando al mio primo film vero e proprio. Sono terrorizzata, tormentata dalla sindrome dell’impostore ma anche felice. Una storia drammatica scritta in commedia. Io so scrivere solo così”. Nell’attesa andatevi a vedere Hangry Butterflies e il perché è presto detto: toccherete con mano quella che nell’ultimo ventennio è diventata una vera e propria emergenza di salute mentale. Ma non tutto è perduto, le farfalle spesso rinascono.