Ci sono storie da maneggiare con cura, che contengono altre storie come fossero matrioske. Protagoniste che riescono a sorprenderti per la loro forza. La forza di rivendicare la propria unicità contro chi le faceva sentire sbagliate. È il caso di Daniela Lourdes Falanga, la cui vita potrebbe essere un film. Anzi, a dire il vero, la sua storia è già arrivata alla mostra d’arte cinematografica di Venezia con il bellissimo docufilm "Red Shoes. Il figlio del boss" realizzato da Isabella Weiss. Ma l’impressione è che sia solo l’inizio di una serie di tributi che le saranno dedicati.
Daniela nasce Raffaele ed è il figlio primogenito di un importante boss camorrista del clan Falanga. Ma Raffaele non risponde a nessuna delle aspettative di quella famiglia. Non vuole essere il rampollo del clan. Vuole altro per sé. In più si sente donna. Provate solo a immaginare cosa può voler dire in un contesto del genere. Seguiranno anni complicati e drammatici in cui con coraggio diventerà quella che è: una donna transgender e una delle attiviste di spicco del movimento Lgbtq+. Ma soprattutto una persona perbene.
Daniela, le capita mai di guardarsi alla specchio e di essere fiera di quello che è? "Sono molto fiera del mio percorso ma prima ho dovuto abbattere la vergogna di un’appartenenza non desiderata. Parlo del mio cognome. All’inizio avevo il terrore che parte della mia vita venisse scoperta, e quella parte non era stata scelta da me. Ero un'innocente consapevole, cosciente pienamente di aver rinnegato l’autorità marcia di mio padre. Sapevo quanto lui fosse stato influente nella vita di molte persone del nostro territorio ma poi non ho fatto fatica a far comprendere quanto io fossi altro dalla camorra. Orgogliosa di essere stata fedele alla giustizia. Fiera dei sorrisi che posso far nascere, delle soluzioni che posso considerare, della mia vocazione di occuparmi di chi ha bisogno perché questo genera una cultura sana".
Essere transgender a Torre Annunziata immagino non sia facile rispetto ad esserlo in una grande città… "Nelle grandi città sono attive da decenni associazioni ed enti a cui appellarsi in caso di discriminazione, mentre nei paesi è più facile che una sofferenza sia taciuta, ed è più difficile qualsiasi tipo di intervento. Si avverte l’affanno della vergogna, di una mentalità ancora restia ad interpretare le necessità differenti dagli stereotipi di massa. Le persone transgender, soprattutto le donne trans e le persone non binarie, maggiormente visibili, restano quelle più discriminate. Per fortuna oggi è tutto cambiato. Si avanza verso consapevolezze elevate, acquisizioni di diritti. Sono cambiati i genitori, sempre più pronti ad affrontare i disagi dei loro figli. Cambiano i figli, sempre più a conoscenza delle possibili e naturali differenze del vissuto umano".
Quando Raffaele ha deciso che era arrivato il momento di lasciare il suo posto a Daniela? "Raffaele è sempre stata Daniela. Il nome e il genere che gli altri avevano pensato per me erano convenzioni. Dentro di me nessuno poteva contrastare un’identità chiara che, invece, fuori veniva costantemente violata. Dentro cresceva Daniela con grande dolore e nel bisogno di una morte che potesse sopraggiungere per liberarla dal dolore di non essere come gli altri si aspettavano che fosse. Potevo essere picchiata, umiliata, negata, ma niente poteva condizionare la mia natura e quando ho scoperto inaspettatamente che era possibile vivermi come veramente ero, è sopraggiunta la forza inarrestabile della vita a darmi resistenza. Avevo 17 anni, ero sola e tornai a scuola dopo la pausa estiva in abiti femminili e truccata, ormai pronta alla sfide successive. Quanto coraggio allora".
Come faceva quel bambino a sopravvivere a certe realtà? "Ero completamente asfissiato dai pensieri, da una madre violenta e da un padre idealizzato e artefice di gravi mali. Ad un certo punto, a tredici anni, rubai i Tavor a mia nonna materna per dormire di notte, perché avevo capito che spegnevano la mente. Credevo di dovermi liberare della vita. È terribile per un bambino. È devastante sentire la morte in vita, crea una solitudine violenta, di pianti senza tregue, di non scelte, di giochi inventati nell’immaginario mentre gli occhi restavano fissi a guardare il mondo da una finestra. Qualcuno mi aveva detto che il suicidio era condannato da Dio, e cosi cercavo di resistere finché non ho scoperto che potevo essere me stessa".
Che ricordi ha di sua madre e di suo padre? E ora che rapporti ha con loro? "Mia madre era una donna afflitta dall’abbandono e dalla violenza di mio padre, ma era anche una donna che aveva interiorizzato il patriarcato. Ha quindi strutturato un carattere forte e violento che ha poi direzionato verso di me. Sentiva il dovere di affermare il mio status di figlio di mio padre e mi obbligava a vederlo ogni fine settimana. Oggi è una donna diversa e assolutamente chiara nei suoi errori, pacificata anche nel rapporto con me. Mio padre, invece, era la contraddizione personificata. Bello, alto. Lo idealizzavo per sopperire all’affetto mancato. Poi era duro, capace di zittire chiunque con un semplice sguardo. Arrogante, un uomo che doveva muoversi entro i margini di un ruolo ed estremizzarlo per consentirsi assoggettamenti. L’ho incontrato dopo più di 25 anni in un istituto scolastico. Lui era lì con la compagnia teatrale di Rebibbia per una performance da attore, io invece dovevo discutere di violenza di genere. Piansi e in realtà piansero tutti i presenti. Ma la di là di quel momento, la mia storia non può intrecciarsi con la sua e ho solo chiarito di nuovo a me stessa che io ho un’altra identità ed è quella che perseguo per indole e cultura. Non lo vedo e non desidero farlo".
Come ha scelto il suo nome Daniela Lourdes? "Ero molto religiosa. Da piccolo mia nonna materna, devota alla madonna di Pompei, mi portava con costanza al santuario. Avvertivo il bisogno di essere accolta. Daniela significa 'scelta da Dio'. Lourdes perché, in un corridoio di ospedale, vidi la statua della madonna in un momento difficilissimo per me: il momento in cui andavo a sperimentare ‘il parto di me stessa’. Io lo dico spesso a chiunque ha dovuto lottare contro negazioni e violenze ed ha vinto: ci siamo partoriti da soli".
Cosa ha suscitato in lei, che ha vissuto in un contesto mafioso per diversi anni, l’arresto di Matteo Messina Denaro? "Non riesco a pensare ad una vittoria perché, per i trent’anni di latitanza va considerato il perpetuarsi di una certa mentalità mafiosa. Vuol dire che per diverso tempo sconteremo ancora quanto questo uomo ha prodotto in termini di cultura mafiosa su quel territorio e le reti che ha intrecciato".
Com’è la cultura mafiosa vista da dentro? "Una condanna su tutti i fronti. È un esperimento in cui si deviano i destini e in cui si compiono azzardi, in cui il rischio è una necessità di potere, di privilegio. E’ uno spazio in cui la libertà è sempre condizionata, e non solo quella di chi è parte attiva ma anche quella di chi assiste. E chi l’assiste può essere un figlio, una madre, dei vicini, una comunità. Chi è dall’altra parte sente invano di non volerci essere”.
Parliamo di bullismo e aggressioni: lei ha avuto più difficoltà da Raffaele o da Daniela? "Da Raffaele ho vissuto violenza fisica, verbale, bullismo continuo a scuola. Non potevo nemmeno alzare la voce per chiedere di essere interrogata. Avevo anche paura di essere perseguitato in bagno. Come Daniela, invece, ho vissuto la morbosità negli sguardi della gente, violenze verbali, la non accoglienza lavorativa, ma ho anche immediatamente acquisito l’orgoglio del mio percorso, di ciò che io rivendico come la più grande rivoluzione. Quindi ho sostanziato la donna e gestito le mie fragilità accarezzando Raffaele, abbracciando il mio bambino interiore, facendolo ricrescere con me senza mai abbandonarlo".
Come mai tante persone transgender decidono di non effettuare operazioni chirurgiche che incidono sugli organi genitali primari? "Perché è chiaro che il genere non si definisce con la vagina o il pene, ma è un costrutto della mente. Quindi non esiste un percorso unico, ma esistono infiniti spazi e progetti in cui ognuno scopre il proprio equilibrio e lo raggiunge".
Anche il suo compagno è transgender, avete mai pensato ad un figlio? "Certo. Ilario ha il desiderio di partorirlo. Abbiamo fatto un percorso insieme di consapevolezza. I nostri corpi possono generare altre persone e il concetto di genitorialità non è esclusivo. Un uomo con queste capacità di relazionarsi al mondo non può che essere un grande padre e non può fare altro che insegnare al proprio figlio il rispetto e la bellezza della propria indipendenza. E io lo farò con lui come madre".
Lei è membro della Segreteria Nazionale di Arcigay ma fino a qualche anno fa il movimento lgbtq+ era diviso. Com’è la situazione attuale? "Ognuno cercava con dolore e forza di organizzarsi e organizzare una propria comunità. Ci si doveva appartenere prima nel dolore per riconoscere un percorso comune senza esclusioni. Oggi finalmente la politica e il movimento Lgbtqia+ si riconosce in battaglie comuni. Siamo consapevoli di aver attraversato il male di questa cultura che ha reso invisibile innanzitutto il mondo femminile. Lo ha annientato e ha fatto lo stesso con ogni altra espressione più o meno derivante".
Lei va nelle scuole a far conoscere tante tematiche ai ragazzi: cosa si sente di dire a chi parla di ideologia gender nelle scuole? "L’ideologia di gender è una fantasia, serve semplicemente a creare confusione e generare nuove negazioni. Per fortuna la gente ha capito che non è nemmeno un argomento di cui discutere. Nelle scuole si va a chiarire in che modo ogni persona porta con sé delle differenze. Si crea vera democrazia e una cultura che facilita la socialità. Si abbassano i conflitti, si stimolano le nuove generazioni al rispetto dell’altro e dell’altra, e molte persone trovano finalmente la capacità di fare coming out".