È costantemente impegnata in alcune tra le battaglie sociali più importanti del nostro tempo. Dal suo studio di avvocato passano casi di diritti negati, dalla sua penna vengono analizzati e commentati i più atroci casi di femminicidio della nostra cronaca, dalla sua cattedra – la prima in Italia dedicata ai diritti costituzionali della donna – insegna alle giovani generazioni la cultura del rispetto reciproco tra uomo e donna, che è la vera base della parità di genere. Si potrebbe dire che Marilisa D’Amico sia una professionista destinata ad occuparsi dei diritti civili e sociali, essendo stata lei per prima ordinata in un mondo accademico fortemente connotato dal punto di vista del genere. Oggi D'Amico è professoressa ordinaria di Diritto costituzionale e Prorettrice con delega alla legalità, trasparenza e parità di diritti presso l’Università degli Studi di Milano, ma soprattutto è una donna fortemente impegnata nella lotta per il raggiungimento di un reale equilibrio di genere sulle opportunità di accesso al lavoro, per il pieno godimento dei diritti civili e sociali, perché la donna italiana non debba più essere obbligata a scegliere tra la carriera e il legittimo desiderio di essere madre. Motivi, questi, per cui ha creato numerosi corsi di perfezionamento sulle tematiche di genere (dal punto di vista generale, sulla violenza di genere, sulla legge n. 120 del 2011 che introduce norme antidiscriminatorie nel mondo economico apicale). Ma non basta; avvalendosi del titolo di avvocato ha portato avanti molte iniziative, contrastando per esempio la proposta dell’ex Presidente della Regione Lombardia Formigoni di modificare la legge che da 40 anni regolamenta in Italia l’aborto, in favore di una maternità consapevole, riuscendo a impedire qualsiasi tentativo di cambiamento in senso restrittivo. Ha portato la vexata quaestio della fecondazione medicalmente assistita davanti alla Corte Costituzionale, ottenendo una revisione della legge e, prima che entrasse in vigore la legge Cirinnà del maggio 2016 – che regolamenta le unioni civili in Italia – si è resa portavoce sempre dinanzi alla Corte Costituzionale della necessità di colmare il vuoto normativo in merito al matrimonio gay e alle unioni tra persone dello stesso sesso. Negli ultimi tempi il suo impegno si è rivolto anche a contrastare l’immagine svilente della donna nei media, promuovendo una proposta di legge con il "Comitato Immagine Differente" il cui scopo è combattere il sessismo nei mezzi di comunicazione. Come avvocato esperto in materia antidiscriminatoria, D'Amico presiede il Consiglio scientifico del Centro Interuniversitario "Culture di genere", che riunisce sei atenei milanesi.
Professoressa D'Amico, sul "Settimanale Giallo" (Cairo Editore) lei tiene una rubrica di analisi e approfondimento dei casi di femminicidio "Esatto. Il direttore è Andrea Biavardi, insieme al quale, in ambito universitario, abbiamo fondato l'Osservatorio Violenza sulle Donne (OVD-Unimi), dove offriamo una disamina completa dal punto di vista legislativo e sociologico del fenomeno della violenza di genere. Purtroppo, quello del femminicidio è un tema sociale di grande importanza perché sono molti i casi di omicidio perpetrati alle donne. Di qui la proposta, da parte di Biavardi, di commentare ogni settimana un caso. Non si tratta di un commento dottrinale, piuttosto analizziamo le dinamiche specifiche del caso, evidenziandone gli aspetti ricorrenti. In meno di un anno abbiamo commentato oltre 30 casi e ci siamo resi conto che i femminicidi utilizzano sempre la medesima escalation di violenza: benché le storie siano diverse, certi segnali si possono identificare per tempo e certi esiti prevedere. Purtroppo, infatti, anche quando l'intervento da parte delle forze dell'ordine è tempestivo, talvolta non basta". Perché tante donne ancora si rifiutano di denunciare episodi di violenza domestica? "La spiegazione che le do è storica e culturale. Nel mio libro 'Una parità ambigua. Costituzione e diritti delle donne' (Raffaello Cortina Editore) parlo della discriminazione partendo dalla storia antica. Il problema della violenza di genere è che, nonostante la Costituzione, la nostra società non riesce a staccarsi dal modello di famiglia patriarcale il quale si fonda sui diritti del pater familias e relega la donna all'accudimento dei figli e all'obbedienza verso il marito. In Italia abbiamo abolito il reato dello stupro e dell'omicidio per causa d'onore solo nel 1981, indice questo dell'esistenza di una società che non è ancora riuscita ad uscire completamente da quel modello culturale. La donna pensa ancora che i panni sporchi si lavino in casa, non si emancipa e anche quando tenta di fare scelte autonome – come separarsi o accompagnarsi ad un altro uomo – i mariti violenti reagiscono nel peggiore dei modi perché temono di perdere il controllo su 'qualcosa' che è di loro proprietà". Come trasformare un'abitudine culturale tanto radicata? "Intervenendo fin dall'educazione scolastica, abolendo certi stereotipi che relegano le donne a un certo ruolo nella società. Se ci facciamo caso bambini e bambine hanno giochi diversificati. Fin dalle elementari i maestri differenziano le attitudini dei maschi da quelle delle femmine: più portati alle materie scientifiche i primi, meno le seconde, che automaticamente vengono indirizzate a scelte di studio umanistiche. Come non bastassero gli stereotipi sociali ereditati dal passato, nuove problematiche affliggono il mondo degli adolescenti, come il fenomeno dei social network. Insieme all'Università lavoriamo proprio sulla minaccia di questi nuovi pericoli provenienti dalla rete tra cui, per esempio, le sempre maggiori difficoltà per i ragazzi di stabilire rapporti reali, o la diffusione incontrollata di messaggi negativi. Il tutto va monitorato attentamente e la scuola in particolare dovrebbe avere programmi ad hoc. Invece molto è ancora affidato all'intraprendenza dei singoli insegnanti. All'Università ci siamo resi conto che una spiegazione proveniente dall'alto serve a poco, più efficaci si rivelano i gruppi di lavoro in cui i ragazzi operano insieme ai propri coetanei. Occorre insomma, una società che capisca che siamo davanti a un problema collettivo rilevante, e che studi una nuova serie di interventi mirati ed efficaci, perché quelli messi a punto fino ad ora non sono sufficienti".
Tra i pericoli della rete vede anche l'eccesso dell'esposizione del proprio corpo da parte delle giovani donne? "Sono una costituzionalista, per cui ho fiducia nella persona e nella sua capacità di autodeterminazione. Però esiste anche il dovere da parte dello Stato di mettere in sicurezza i propri cittadini, a partire da quelli più fragili. In questo senso non si dovrebbero usare strumenti restrittivi, piuttosto incoraggiare l'utilizzo positivo dell'immagine del proprio corpo. Con la dottoressa Silvia Brena stiamo lavorando da anni sul 'Contromessaggio', ossia un linguaggio inclusivo –fatto non solo di parole– che dovrebbe essere adottato anche dal mondo della pubblicità. Un messaggio positivo per esempio potrebbe essere quello di non mostrare il corpo nudo, bensì il corpo ben vestito di una donna elegante. Insomma, cambiare la cultura dell'immagine potrebbe dimostrarsi un tipo di intervento più sottile, ma a lungo termine efficace. In questo senso, influencer come Chiara Ferragni stanno offrendo un modello diverso ai giovani, attento a messaggi positivi e alla trasmissione di valori”. Altro tema importante che ha trattato nella sua rubrica è quello della gelosia dell'uomo verso la vittima di femminicidio, che da attenuante è diventata aggravante del caso "Esatto. Fino al 1981 un assassino che aveva agito per causa d'onore veniva quasi scagionato, anche solo con il sospetto del tradimento; riflesso questo di una società che giustifica la gelosia. Si è poi visto invece che in tutte le dinamiche che portano alla violenza la gelosia si dimostra essere un aggravante, perché è un aspetto patologico della personalità di un individuo che non rispetta l'altro e che mette in atto comportamenti negativi. È recente la sentenza shock della Corte di appello di Torino, che ha interpretato come 'un invito a osare' -ossia di consenso- il fatto che la vittima di stupro avesse lasciato la porta del bagno socchiusa. Oggigiorno una donna può permettersi di dire 'no' anche mentre si trova già a letto con un uomo e ci ha ripensato, o se all'invito verbale non risponde: il non assenso non significa consenso e anzi rappresenta un elemento a carico del violentatore. La sentenza della Corte di Torino denota una scarsa conoscenza del fenomeno da parte dei giudici. Ecco perché il mio impegno è anche a favore della formazione degli stessi giudici, che chiedono di fare corsi specifici per affrontare la tematica della violenza sulle donne, verso la quale servono conoscenze specifiche e uno sguardo diverso". Quanto incidono i disturbi psichiatrici dell'uomo sui fenomeni di violenza di genere? "Fino a un certo momento della storia si giustificavano atti di violenza dovuti all'incapacità di intendere e di volere, oggi questo avviene sempre meno. Una situazione di violenza di genere causata da un rapporto malato deve essere presa in carico tempestivamente dagli psicologi e monitorato da un presidio sociale forte, per capire se esistono vere patologie psichiatriche da curare con i farmaci, oppure se si tratta di uno squilibrio psicologico in cui anche l'atteggiamento della donna che subisce rischia di portare a un drammatico finale". Cosa accade ai figli delle vittime di femminicidio? "La legge n° 4 del 2018 riconosce a queste vittime, che ad oggi in Italia sono circa 2000, la necessità dell'intervento dello Stato, attraverso significative tutele processuali ed economiche ai figli. Ma fino al 2018 non esistevano interventi specifici. Io ho conosciuto una coppia di nonni che a 80 anni si sono ritrovati a doversi occupare di due nipotine piccole, dopo che la figlia era stata vittima di femminicidio. Una delle due bambine era seriamente compromessa a livello psicologico per colpa dell'accaduto ed era costretta a frequentare uno psicologo privato, poiché i nonni non potevano contare su alcun presidio pubblico. Le bambine erano completamente a carico di due persone anziane. Fortunatamente al tempo vennero aiutate da un Soroptimist Club del loro territorio. Il mondo del volontariato viene spesso in soccorso, ma stiamo parlando di una realtà sociale molto numerosa verso la quale lo Stato ha fatto qualcosa ma non abbastanza, e i bambini che non hanno parenti prossimi disponibili ad occuparsene spesso vengono separati dai fratelli e affidati a famiglie diverse".
Quali sono state le principali riforme e cambiamenti degli ultimi anni per tutelare le donne vittime di violenza e prevenire i femminicidi? "Partiamo nel 1996 con la legge sulla Violenza, poi quella sullo Stalking del 2009 e la Convenzione di Istanbul ratificata in Italia nel 2013. Negli ultimi anni il cd Codice rosso ha dato prova di essere un segnale importante, e anche la Commissione Femminicidio del Senato -presieduta dalla senatrice Valeria Valente- sta facendo un buon lavoro perché opera in collaborazione con medici e magistrati su tematiche come la violenza assistita (quando i bambini assistono alla violenza sulla propria madre) e sulla violenza secondaria". Ci racconta qualcosa della sua campagna "100 storie di diritti negati"? "Si tratta di una serie di video realizzati grazie al contributo e alla testimonianza di persone che si mettono in gioco e fanno valere i propri diritti di fronte alle Corti. Ho difeso donne vittime di violenza o che combattevano per i diritti alla parità di genere, persone con disabilità e coppie omosessuali. L'idea del progetto è quella di chiedere alle persone di raccontare i loro diritti negati per capire se possiamo rivendicarli davanti a un giudice”. Lei ha creato il primo corso di laurea in Diritti delle donne nello Stato costituzionale d'Italia "Sì, ma ci sono arrivata perché due anni fa ho vinto un progetto europeo importante, ossia una cattedra al Jean Monnet, che punta a perfezionare la didattica negli studi dell'Unione Europea contenuti nel programma degli istituti d'istruzione. Fino all'anno prima, nel mio ateneo, lo stesso insegnamento me l'avevano negato. Oggi con orgoglio posso dire che, pur essendo un corso opzionale, le mie lezioni sono frequentate da 60, addirittura 80 partecipanti -invece dei soliti 30-, diversi dei quali sono uomini. Di questo sono molto soddisfatta perché la cultura dei diritti delle donne va conosciuta e studiata scientificamente, sensibilizzando le giovani generazioni che, comunque, già di per sé mostrano di essere molto attente all'argomento".